Doc. IV-ter, n. 22-A-bis




Onorevoli Colleghi! A nome della minoranza espressasi nella seduta della Giunta per le autorizzazioni dell'11 luglio 2012, riferisco su una domanda di deliberazione sull'applicazione dell'istituto dell'insindacabilità di cui all'articolo 68, primo comma, della Costituzione, avanzata dal tribunale di Brescia nell'ambito di un procedimento civile per risarcimento dei danni, intentato da Alfredo Robledo nei confronti del deputato Silvio Berlusconi.
I fatti all'origine della domanda risarcitoria consistono in varie dichiarazioni rese in pubblico dall'ex presidente del Consiglio dei ministri, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006 e anche successivamente.
In data 6 aprile 2006, egli, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi, ha sostenuto che, in relazione al processo Mills, i suoi difensori avevano chiesto alla procura di Milano di approfondire alcuni spunti investigativi e in particolare di effettuare una rogatoria alle Bahamas per appurare che la pretesa corruzione del testimone Milis in realtà non era avvenuta, essendo i danari a questi pervenuti dovuti ad altro affare.
A conclusione di questo intervento, l'on. Berlusconi ha sostenuto che fosse un'infamia che i magistrati tramassero contro di lui a spese del contribuente e che pertanto essi dovevano ritenersi indegni.
In data 7 aprile 2006, intervenendo nella trasmissione Radioanch'io, l'on. Berlusconi avrebbe reiterato il rilievo che la procura di Milano non avrebbe esperito la rogatoria alle Bahamas e questo denotava l'accanimento della procura di Milano nei suoi confronti, sostenuto peraltro dal danaro del contribuente.
Nel corso della trasmissione radiofonica, rispondendo a un'ascoltatrice, l'on. Berlusconi avrebbe precisato che egli non si riferiva a tutta la magistratura, ma soltanto alla procura della Repubblica di Milano.
Rispondendo, ancora, a un altro ascoltatore, che faceva rilevare una certa genericità delle sue invettive, il deputato Berlusconi ha sostenuto che la procura mentiva.
Successivamente, il 27 febbraio 2010, su varie testate, il deputato Berlusconi tornava a ribadire concetti analoghi, ricompresi in articoli giornalistici titolati Giudici talebani.
In buona sostanza, il deputato Berlusconi ha reiterato la sua solita accusa alla magistratura milanese di ordire nei suoi confronti una persecuzione e di essere un organo politicizzato. Tuttavia, in questa occasione l'invettiva è più circostanziata: con specifico riferimento al caso Mills egli ha sostenuto che la sua difesa tecnica aveva chiesto che la magistratura inquirente avanzasse una determinata rogatoria all'estero e che - viceversa - la procura di Milano quella rogatoria si era rifiutata di avviarla.
Compulsato da un radioascoltatore sul punto preciso, Silvio Berlusconi ha affermato senza tentennare che la procura della Repubblica mentiva e che la rogatoria non era stata avviata, sottintendendo che tale omissione fosse l'ennesima dimostrazione della persecuzione politica nei suoi confronti.
Dai documenti inoppugnabili allegati all'atto di citazione (v. le rogatorie in atti del 18 aprile 2005, 23 dicembre 2005 e 14 febbraio 2006) e messi a disposizione della Giunta delle autorizzazioni risulta - al contrario - che ben tre volte la rogatoria fu richiesta alle autorità competenti ma non ebbe seguito proprio per l'inerzia di un ministro del Governo che Berlusconi stesso presiedeva. In via oggettiva, senza polemica politica e senza alcun sentimento fazioso, si può e si deve asserire che nella trasmissione radiofonica considerata era Berlusconi che muoveva ai magistrati titolari dell'inchiesta Mills (e quindi inequivocabilmente al dott. Robledo che la coordinava) un'accusa falsa e non viceversa. Il mentitore - tecnicamente - era lui e non i magistrati. Le altre espressioni dette da Berlusconi su Robledo, richiamate nella citazione per danni, (infamia, giudici talebani, eccetera) sono quindi tutte basate su un assunto falso e non possono per nessun motivo rientrare nel diritto di critica politica di cui all'articolo 21 Cost., la cui sussistenza comunque spetterebbe al giudice valutare (1).

(1) Secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, quando - come accade assai di frequente - alla critica si premette una narrazione dei fatti che si intendono criticare, è necessario che quei fatti siano riportati secondo le regole del diritto di cronaca, vale a dire che essi siano veri, di pubblico interesse e correttamente esposti: Cass., 11 agosto 1998, Mattana, Cass. pen. 2000, 873; Cass., 9 giugno 2000, Simeone, ivi 2002, 1400; Cass., 7 febbraio 2001, Gianfanti, ivi 2002, 2352. In questa decisione si statuisce che l'esercizio del diritto di critica presuppone una notizia che a esso preesiste, con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica su dei fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero. Ancor più linearmente Cass., 18 aprile 2001, Sylos Labini, Foro it. 2002, II, 2, ha stabilito che per l'applicabilità del diritto di critica è indispensabile che sussistano gli estremi della verità del fatto diffamatorio. Conformemente, App. Trento, 13 marzo 2002, XY, Giur. merito 2003, 329; Cass. 14 febbraio 2002, Trevisan, Cass. pen. 2003, 3019.
Nel senso - ancora - che la critica che presupponga e premetta fatti deve riferirsi a eventi realmente accaduti, Cass. 6 agosto 2004, decreto ministeriale e altro, Dir. pen. proc. 2004, 1216; Cass. 30 giugno 2004, Sinn, C.E.D. Cass. n. 229312; Cass. sez. V, 7 luglio 2006, Nanetti, Giust. pen. 2007, II, 508; Cass. sez. V, 17 luglio 2006, n. 24509, Pansa, in Resp. civ. prev. 2007; Cass. sez. V, 5 giugno 2007, D'Avanzo, Cass. pen. 2008, 2846; e ancora Cass. sez. V, 31 gennaio 2007, Iannuzzi, ivi 2008, 1050, secondo cui ai giornalisti è ben consentito offrire degli stessi fatti versioni diverse al fine di sottoporli a vaglio critico ma non si può arrivare ad attribuire a persone nominate specifici fatti sprovvisti di qualsiasi dimostrazione.
Vale la pena segnalare anche Trib. Monza - sezione distaccata di Desio - 18 novembre 2003, Cgil c. Coop. editoriale Libero, inedita, che ha ritenuto esorbitante dal diritto di critica l'aver attribuito a Sergio Cofferati l'incoerenza di dolersi pubblicamente della morte di Marco Biagi dopo averlo additato alla pubblica opinione come un «traditore». Poiché mai l'allora segretario della Cgil aveva usato quel termine nei confronti del professore vilmente ucciso - pur avendone pubblicamente criticato le tesi - il giudice ha ritenuto mancante il presupposto di fatto della critica.
Cass. sez. I, 10 giugno 2005, Rocchini, Giust. pen. 2006, II, 594, ha poi precisato che la critica politica può anche raggiungere livelli di particolare acutezza ma deve rimanere pur sempre pertinente e proporzionata e non può estendersi strumentalmente a terreni estranei all'oggetto specifico della contesa.
Cass. sez. V, 6 febbraio 2007, Iannuzzi, Cass. pen. 2008, 611, ha ritenuto che l'esimente del diritto di critica sia configurabile quando il discorso giornalistico abbia un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell'alveo di una polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale, senza trascendere in attacchi personali, finalizzati all'unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi neppure - a differenza di quanto capita per il diritto di cronaca - che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo e il profilo essenziale dei fitti criticati sia vero e non artatamente travisato e manipolato. Si trattava del caso del giornalista e senatore Iannuzzi, il quale aveva definito 'sprovveduto e incauto' un magistrato designato alla trattazione dibattimentale di un processo di mafia. Nelle osservazioni la commentatrice sottolinea, aderendo alla statuizione della Cassazione, che quanto più alte sono le responsabilità pubbliche della persona criticata, tanto più ampie sono le facoltà di chi si avvale della critica nei confronti di essa.
Secondo Cass. sez. V, 21 febbraio 2007, Feltri, ivi 2008, 2882, vale però anche il principio per cui attacchi privi di fondamento alla magistratura non possono ritenersi coperti dall'articolo 51 c.p. soprattutto a motivo del riserbo che i giudici debbono tenere (anche a mente della sentenza della Corte costituzionale n. 100 del 1981) e del loro dovere di astenersi dalla polemica politica.
Cass. sez. V, 7 febbraio 2007, Castrovinci Grillo, Riv. pen. 2007, 511 aveva ritenuto pur dichiarandone l'estinzione per prescrizione - sussistente il reato di diffamazione per le espressioni "Giuda Iscariota ma senza denari, chi te li deve dare i denari?" rivolta da un esponente politico locale a un altro a motivo dello spostamento del secondo in altro schieramento; e Cass. sez. V, 9 agosto 2007, Laraia, ivi 2007, 1114, aveva ravvisato il reato di diffamazione per l'espressione "Gaglioffo azzeccagarbugli" rivolta da un esponente d'opposizione nel consiglio comunale di Venosa (PZ) al sindaco. E di recentissimo, per la scriminante applicabile solo a fatti veri, v. Cass. sez. V, 11 aprile 2012, n. 19288 e Cass. sez. III civ., 19 giugno 2012, n. 10031.

Tanto meno si può ricondurre questa fattispecie di diffamazione alla prerogativa dell'insindacabilità.
L'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni (articolo 68, primo comma, Cost.) deriva dalla tradizione parlamentare britannica e stabilisce la preclusione per gli altri poteri dello Stato di chiamare a rispondere un membro del Parlamento per ciò che ha affermato o per come ha votato in attuazione del suo mandato. Si tratta di una garanzia sostanziale, giacché impedisce giudizi di responsabilità e sanzioni giuridiche, sia sul piano penale, che su quello civile, amministrativo, disciplinare, contabile, ecc. La differenza che si registra è tra gli ordinamenti di derivazione anglosassone (per esempio Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti e Canada), i quali disciplinano l'insindacabilità secondo il criterio spaziale (insindacabilità per opinioni espresse e voti dati nel Parlamento) e quelli di derivazione neo-latina (per esempio Francia, Italia e Spagna) che la disciplinano secondo il criterio funzionale (insindacabilità per opinioni espresse e voti dati nell'esercizio delle funzioni). Una diversità che si riscontra tra l'Italia e gli altri ordinamenti parlamentari è che l'insindacabilità nel nostro ordinamento è amministrata in prima battuta dal parlamento stesso (salvo il successivo intervento della Corte costituzionale), mentre in tutti gli altri sistemi - essendo una regola di diritto sostanziale - l'insindacabilità è giudicata direttamente dal giudice ordinario. Nel corso del 2000 e del 2001 si è affermato l'indirizzo «vivente» della Corte costituzionale in materia.
Partendo dal presupposto che l'insindacabilità delle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni costituisce un'eccezione al principio generale della soggezione di tutti i cittadini alla giurisdizione esercitata secondo la legge, la Corte ha stabilito che di essa occorre dare un'interpretazione rigorosa e aderente alla ratio della disposizione costituzionale, che prevede un presidio a tutela della funzione e non una guarentigia personale di chi la ricopre. Alla luce di tale criterio sono sicuramente insindacabili gli atti tipici dell'attività parlamentare, anche perché essi sono svolti secondo le regole di correttezza formale ed espressiva dettate dai regolamenti parlamentari e fatte rispettare dai presidenti di Assemblea e di Commissione. Quelli invece svolti extra moenia sono insindacabili solo se e nella misura in cui siano «identificabili» come attività parlamentare, vale a dire abbiano una «corrispondenza sostanziale» di contenuto con atti parlamentari tipici. In buona sostanza, in tanto una dichiarazione resa alla stampa o in televisione può ritenersi attività attinente all'esercizio del mandato parlamentare in quanto sia fedele riproduzione all'esterno, e dunque divulgazione e rappresentazione, dei contenuti esatti di atti tipici (2). Di rilievo sono anche le sentenze nn. 347 e 348 del 2004 nonché la sentenza n. 193 del 2005 e la 286 del 2006, le quali hanno ribadito l'irrilevanza dell'interrogazione presentata da parlamentari diversi da quello chiamati a rispondere. Con la sentenza n. 249 del 2006 la Corte ha affermato che il turpiloquio non è mai forma ammessa dell'esercizio delle funzioni.

(2) Proposte di legge, atti di sindacato ispettivo, interventi nelle varie sedi parlamentari, eccetera: sentenze nn. 10, 11, 56, 58, 82, 320, 321 e 420 del 2000; 137 e 289 del 2001; 50, 51, 52, 79, 207, 270, 283, 294, 421, 435, 448, 508, 509 e 521 del 2002, nonché 219 e 379 del 2003 e 120 e 246 del 2004; 28, 146, 164 e 235 del 2005; 331, 335, 371 e 373 del 2006, 53 e 65, 166 e 271 del 2007, 334 del 2011 e 39 del 2012. Vale poi la pena riportare testualmente un passo della sentenza n. 205 del 2012, relativa a una deliberazione - piuttosto disinvolta - del Senato in favore del sentore Iannuzzi: "Nel conflitto in esame, né la relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, né la deliberazione del Senato della Repubblica indicano atti parlamentari tipici del senatore Iannuzzi, anteriori o contestuali alle dichiarazioni oggetto dell'imputazione, ai quali, per il loro contenuto, le stesse possano essere riferite, ed è per questa ragione che la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari si è limitata ad auspicare un «salto interpretativo della giurisprudenza costituzionale, volto a ritenere sussistente il nesso funzionale in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino, illustrando la propria posizione». Ciò soprattutto nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui il parlamentare svolge o abbia svolto attività di giornalista, la quale andrebbe considerata «come parte della più ampia attività di politico ed espressamente, per quanto atipica, del relativo ruolo istituzionale». La circostanza, invocata dalla relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, che il senatore, prima della sua elezione, svolgesse attività di giornalista e che, per tale ragione, sia stato scelto dagli elettori non vale a estendere, a suo favore, l'ambito di operatività della garanzia di insindacabilità sancita dall'articolo 68 Cost. Anche con riferimento al parlamentare che svolge o abbia svolto attività giornalistica, infatti, la divulgazione di idee, prive del requisito della sostanziale corrispondenza di significato con le opinioni espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari, può inquadrarsi «nella normale attività di critica politica che il parlamentare è libero di svolgere al pari di qualunque cittadino, senza fruire, peraltro, di specifiche clausole di immunità che finirebbero per coinvolgere e compromettere - senza una specifica relazione con la logica di garanzia sottesa all'articolo 68, primo comma, Cost. - i diritti dei terzi a veder tutelata in sede giurisdizionale la propria immagine e la propria onorabilità» (sentenza n. 82 del 2011). Nel caso di specie, difetta dunque il nesso funzionale tra le affermazioni oggetto del procedimento penale ed eventuali atti compiuti in sede parlamentare. In senso contrario non può farsi utilmente riferimento alle interrogazioni parlamentari richiamate dalla difesa del Senato nella memoria depositata in prossimità dell'udienza. Si tratta infatti di interrogazioni che riguardano vicende o magistrati diversi da quello cui si riferiscono le espressioni per le quali procede il Tribunale di Monza e non è individuabile, rispetto ad esse, alcun nesso funzionale con le dichiarazioni relative al dott. Ingroia, rese extra moenia. Inoltre, come questa Corte ha affermato in altra occasione, «il mero "contesto politico" o comunque l'inerenza a temi di rilievo generale dibattuti in Parlamento, entro cui le dichiarazioni oggetto del presente conflitto si possano collocare, non connota di per sé tali dichiarazioni quali espressive della funzione parlamentare. Infatti, ove esse non costituiscano la sostanziale riproduzione delle specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni e quindi non siano il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato o ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto, a garanzia delle prerogative delle Camere, dall'insindacabilità), esse devono essere considerate come un diverso contributo al dibattito politico, riferito alla pubblica opinione usufruendo della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'articolo 21 della Costituzione (sentenze n. 302 del 2007 e n. 260 del 2006)» (sentenza n. 134 del 2008)". Pertanto, si deve concludere che la deliberazione del Senato della Repubblica impugnata ha leso le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente e deve essere annullata".

È quindi ragionevolmente certo che la difesa del dott. Robledo chiederebbe al giudice procedente di elevare conflitto tra poteri ai sensi articolo 134 della Costituzione e - allegate le testuali parole oggetto della complessiva contestazione giudiziale, in modo da evitare d'incorrere in cause d'inammissibilità del ricorso - chiederebbe espressamente l'annullamento della deliberazione che dichiarasse l'insindacabilità. Va detto, al riguardo che anche di recente le Camere sono risultate soccombenti sotto questo profilo (sentenze n. 39 e 205 del 2012, di annullamento di delibere rispettivamente della Camera e del Senato) perciò la Corte con ogni ragionevole certezza accoglierebbe il ricorso.
Ma non soltanto.
Come è noto, l'Italia fa parte di due ordinamenti sovranazionali, un tempo distinti e lontani, oggi molto più vicini e in comunicazione tra loro: il Consiglio d'Europa e l'Unione europea. Il Consiglio d'Europa è quella associazione di Stati (oggi 47) che hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Tale Convenzione contiene un catalogo di diritti dei cittadini, che le rispettive autorità statali non possono violare. Nel caso in cui vi sia una doglianza da parte di una persona che adduca che un provvedimento pubblico definitivo abbia leso uno dei diritti previsti dalla Convenzione, la persona medesima può adire la Corte europea dei diritti dell'uomo per far accertare la violazione e ottenerne un indennizzo. Peraltro, con la sentenza n. 113 del 2011, la Corte costituzionale italiana, ribadendo i contenuti di due sue precedenti sentenze (la 348 e la 349 del 2007) ha stabilito che - se la Corte europea di Strasburgo dichiara la violazione del diritto - lo Stato responsabile della violazione non può limitarsi a erogare l'indennizzo ma deve ripristinare lo status quo ante.
Orbene: in passato molte personalità offese da parlamentari, scontratesi con delibere immunitarie delle Camere, si sono rivolte alla Corte europea dei diritti dell'uomo e ne hanno sempre ottenuto l'accertamento della violazione dell'articolo 6 (diritto a un equo processo): vedi i casi Cordova 1 e 2, Di Iorio, Ielo, Patrono, Cofferati 1 e 2 e Onorato. In tali sentenze è scritto che - ove manchi un legame evidente tra le dichiarazioni contestate in giudizio e i contenuti oggetto di attività parlamentare - l'istituto immunitario non può comprimere il diritto a un equo processo.
La delibera che la Giunta propone all'Assemblea sarebbe dunque anche in palese contrasto con l'orientamento assolutamente consolidato della Corte europea dei diritti dell'uomo e quindi, nel caso di accertamento di violazione da parte della medesima Corte, sarebbe soggetta ad essere posta nel nulla ai sensi della sentenza n. 113 poc'anzi richiamata. È evidente che il dott. Robledo potrebbe chiedere e ottenere la riapertura del processo.
Ma non solo la Camera dei deputati assumerebbe una deliberazione dannosa e inutile: essa comporterebbe anche un danno patrimoniale per lo Stato. Infatti l'articolo 6 del Trattato sull'Unione europea prevede che i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo fanno parte dei diritti dell'Unione come principi generali. Sicché la violazione del diritto della Convenzione sarebbe violazione anche del diritto comunitario, così configurando una responsabilità patrimoniale dello Stato italiano e della Camera dei deputati secondo i dettami della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (vedi sentenze Francovich e Traghetti del Mediterraneo).
Invito pertanto i colleghi a riflettere che la loro deliberazione sull'insindacabilità del collega Berlusconi esporrebbe non loro personalmente (giacché saremmo tutti insindacabili per il voto espresso) ma la Camera dei deputati all'azione risarcitoria.
Per questi motivi invito quindi i colleghi a respingere la proposta della Giunta.

Federico PALOMBA,
per la minoranza


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